La foto della settimana #03

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"Stricken child crawling towards a food camp
" di Kevin Cartner


È un giorno di marzo. Nel sudan del 1993. C’è una bambina minuscola e affamata, rannicchiata a terra, la schiena arrotondata a conchiglia, la fronte appoggiata sulle mani. Sola. Dietro di lei silenzioso e paziente, a controllare ogni movimento, con le ali a mantello c’è un avvoltoio. Davanti, un uomo. In ginocchio, con una macchina fotografica. Kevin Carter ammetterà di essere rimasto venti minuti in attesa che l'avvoltoio aprisse le ali. Non le aprirà ma lui scatterà lo stesso e poi rimarrà seduto sotto un albero a piangere e parlare con Dio, a pensare a sua figlia. Con quell’immagine titolata “Stricken Child Crawling Towards a Food Camp” , che diverrà nel mondo il simbolo della carestia e dalle fame, vincerà il premio pulitzer nel 1994.
A chi gli chiese in seguito se la bambina fosse sopravissuta, se dopo aver scattato l’immagine, la soccorse, Kevin non risponderà mai.
Non seppe mai che fine fece . Quella bambina diventò il suo incubo.
Anni dopo feci ad un famoso fotografo italiano la stessa domanda. Dopo aver scattato l’immagine che stavo guardando aveva salvato i bambini ripresi? Lui rispose che ci provò, che posò la macchina e si chiese cosa fare. Fu bloccato da un medico che gli disse risoluto che se era un fotografo, quello doveva impegnarsi a fare.
Fai quello che sei venuto a fare, e fallo meglio che puoi. "Se kevin non avesse scattato quella immagine", scrive Andy Mc Naab in Buio Profondo : "..neppure uno di quegli stronzi di casa nostra avrebbe mai saputo dove si trova il sudan!”.
Kevin Carter aveva iniziato a lavorare come fotografo di sport. Ma viveva in Sudafrica, e come fai a scattare immagini di gente che gioca a cricket e dimenticare che il mondo attorno a te sta cambiando, che crolla l’apartheid, che nasce un nuovo stato che forse sarà ancora intollerante e non più solo in un'unica direzione. Forse puoi, ma non potè Kevin Carter che presto passò alle township nere e al deserto del sudafrica. Quello era per lui l’unico modo possibile di essere fotografo. Infatti quando gli incubi diventavano troppi, quando “l’orrore che si portava sempre dentro” gli teneva gli occhi spalancati di notte non tornava alle piste da corsa, al cricket, ma mollava tutto e si ritirava in una pace artificiale da disc-jokey di centri commerciali.
Passava musica. E per un po’ funzionava. Poi la musica veniva parcheggiata per far posto a format dai contenuti impegnati come Newsday e tutto ricominciava. Per Kevin il modo di raccontare non si esprimeva con le parole. Eccolo qualche mese dopo, l’11 aprile del 94, a pochi giorni dalle elezioni che portarono al potere in sudafrica la maggioranza nera, nel bophuthatswana: una homeland nera. Migliaia di estremisti bianchi in pantaloncini si erano scontrati con l’esercito. Erano guidati da Eugene Terreblanche e stavano battendo in ritirata dopo aver perso. Una mercedes bianca con tre uomini a bordo viene intercettata da soldati neri e in una sorta di moviola terribile durata un’ ora i tre uomini vengono uccisi uno alla volta. Tra un esecuzione e l’altra i tre boeri fanno tempo a rispondere alle domande dei giornalisti e sono fotografati dai reporter . Insultano i loro carnefici convinti che “ gli sporchi negri “ non avranno il coraggio di ammazzarli. Quella sera Kevin a casa portò con se fotografie che sarebbero finite sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo e una domanda. Subdola. Tremenda. Perché non aveva fatto nulla per fermare quell’ orrore? Una settimana più tardi il suo miglior amico e fotografo Ken Oosterroek fu ucciso da una pallottola vagante mentre erano assieme in un sobborgo di Johannesburg. Non c'è una risposta su quanto orrore si possa sopportare nella vita, che vale per tutti. Ci sono persone che si danno risposte, la persuasione delle quali spesso funziona solo per se stessi. ll fotografo Cobus Bodenstein dopo le vicende del bophuthatswana aveva commentato che se fossero intervenuti sarebbero stati uccisi anche loro. Disse “ ... noi non siamo il braccio di Dio. Siamo solo il suo occhio.” Il 27 luglio Kevin Carter scriverà una lettera a sua figlia di 6 anni e una a sua moglie (dalla quale si era appena separato). Un ultimo biglietto lo lascerà sul sedile dell’auto: c’è scritto “The pain of life overrides the joy to the point that joy does not exist.”
Dopo di che accenderà il motore della sua auto e si lascerà morire. Che fossero di Dio o solo suoi, quel giorno gli occhi di Kevin si chiusero per sempre.


(di Nicoletta Lupi)